Continuare a pensare durante i giorni di crisi. La “tenuta” dell’operatore di Alfredo Ancora [*]

 

Escher, Incontro, 1944

dialoghi intorno al virus

di Alfredo Ancora [*]

20 aprile

Una “sosta” obbligata?
Quando il tempo scorre nelle sue forme obbligatorie, irrompe il pericolo di vivere senza pensare
soprattutto per chi fa il nostro lavoro. Bruno Callieri [1], maestro indiscusso della psichiatria
italiana, diceva: «La vita vissuta dell’uomo ha la struttura della via, cioè il suo “qui-ora” si
costituisce sempre mediante un “da-dove” e un “verso-dove”». Seguendo questo suggerimento
cerchiamo di descrivere “un idea” di percorso un po’ speciale, necessariamente in process, nei
viottoli del pensiero di noi, “tecnici della salute mentale”, in questi giorni (marzo-aprile 2020). Un
andamento necessariamente a zig-zag perché interessa anche noi come “persone comuni”, prima,
durante, forse anche dopo la pandemia-pan-demonio, fonte di caos e dis-ordine nei nostri
atteggiamenti mentali e nelle nostre “intoccabili” (almeno finora) condizioni di vita.
Il nostro passato lo conosciamo (formazione, vissuti personali, professionali etc.), il durante lo
stiamo vivendo fra mille contraddizioni di chi sta dentro e deve stare anche fuori [2]. Il futuro non
possiamo prevederlo interamente, ma forse possiamo prepararci! Andremo incontro ad un periodo
di cui non possiamo immaginare il prodotto finale “psichico ed esistenziale” a meno che non ci si
lasci andare a ipotesi “tranquillizzanti” del tipo tanto tutto tornerà come prima.
Dovremmo partire dal concetto di crisi, più precisamente dalla crisologia, scienza della crisi, che il
novantanovenne Edgar Morin [3] considera come possibilità di cambiamento e non solo
nell’accezione negativa in cui comunemente viene considerata. Infatti, nella sua ultima intervista

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(aprile 2020) commentando la situazione attuale intravede in questa crisi «la possibilità di
riconquistare il tempo interiore “come una sfida politica, ma anche etica ed esistenziale» [4].
Noi (psichiatri, psicoterapeuti, psicologi,) assomigliamo ai “guaritori feriti”, di cui parla Carl
Gustave Jung: «Solo il guaritore ferito può guarire» [5]. Per questo, è importante conoscere in una
crisi le vari fasi evolutive delle sue potenzialità trasformative, di un possibile intervento su una sua
acutizzazione [6], di un eventuale inizio di cambiamento. È necessario riflettere sul carico di
angoscia dei tempi attuali che “gonfia” i nostri pensieri con aria di forti dubbi sul se e sul come
intervenire. Noi operatori siamo sottoposti come tutti gli altri (anche se siamo in possesso di
qualche strumento di analisi in più) alle stesse tensioni. In un certo senso si è formato un quadro
fuori dall’ordinario: tecnici e pazienti nella stessa situazione, livellati, come ci ricorda il grande
Totò nella sua A livella [7]. È noto lo stile dissacrante del grande comico-epistemologo che in
questa poesia-monologo racconta come marchesi e netturbini finiscono poi tutti egualmente sotto
terra! Per certi versi anche adesso sua Maestà Corona Virus, monarca assoluto, ci ha reso tutti
egualmente sudditi! È chiaro che non tutti vivono nelle stesse condizioni, come chi abita in luoghi
ristretti o scarsamente igienici, nomadi, migranti, fasce deboli della cosiddetta scala sociale, anziani
con un triste primato di decessi. E pensare che un proverbio africano così recita: «quando muore un
vecchio è come se andasse a fuoco una intera biblioteca!»
Una questione più dolorosa riguarderà coloro che hanno perso (o perderanno) il lavoro [8]. Senza
dubbio l’insulto iniziale e i relativi provvedimenti restrittivi hanno riguardato tutti, ricchi e poveri,
precari e stabilizzati, pensionati e non, dipendenti e datori di lavoro! Potenza di un virus! Tutti
uguali! «Siamo tutti sulla stessa barca, nessuno si salva da solo» ha detto Papa Francesco durante la
preghiera [9] del 27 marzo in un piazza S. Pietro deserta nella sua bellezza spettrale! Allo stesso
tempo, sale una domanda: questa crisi come e se cambierà noi operatori prima di tutto a livello
personale e poi come e se influenzerà le nostre “pratiche”, più attente certamente a bisogni psichici
lievitati in questo periodo anomalo! Saremo capaci di apprendere anche dai contesti in cui si
presenterà il disagio e non di estrapolare da esso? Né possiamo certamente trascurare quel materiale
di “macerie e rovine interne” [10] che ogni evento nefasto talvolta trascina con sé, alcune volte
sotto traccia, come “ferite invisibili” di cui parla Richard F. Mollica [11].
Dipenderà dalle risorse individuali messe in campo (e soprattutto quelle rimaste!) in che forma
leggera / pesante sarà toccato ognuno di noi e da quanto la società sarà capace di creare
“ammortizzatori” per lenire indubbi stati di sofferenza non solo psichica. L’attentato alle condizioni
di vita attuali per certi versi ci ha riportato indietro nel corso del tempo a quel senso di «precarietà
dell’esserci e al rischio di non esserci» descritta negli anni cinquanta da Ernesto de Martino [12]
come “crisi della presenza” e ripresa poi anche da Ulrich Beck (1986) nel suo La società del rischio
[13].

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Escher, san Pietro, 1935
L’obbligo di essere solidali
Forse per poter anche apprendere qualcosa da tale attentato al nostro modo di vita, spesso veloce e
frettoloso, dovremmo allentare un po’ le nostre difese ed aprirci di più “al mondo” spesso ignorato,
scoprendo che ci si può avvicinare agli altri che popolano lo stesso condominio e che non abbiamo
finora voluto/potuto neanche sfiorare con uno sguardo! Potremmo accorgerci che il bisogno degli
altri è pari a quello degli altri verso di noi. Scoprire la solidarietà di questi tempi sta quasi
divenendo una necessità! Siamo tutti interconnessi, non solo con internet ed altri mezzi virtuali ma
anche con pensieri e comportamenti che si rimandano a vicenda come in un cerchio composto da
tante parti interagenti fra loro. Se volessimo dare una forma a queste immagini per certi versi
circolari potremmo ricorrere all’aiuto di Maurits Cornelis Escher [14], geniale incisore e grafico
olandese nelle cui opere ogni figura è collegata all’altra e viceversa. Nel suo famoso lavoro
“cielo/acqua” dove cominciano gli uccelli e iniziano i pesci e viceversa? Sul piano della nostra
realtà quotidiana sta accadendo qualcosa di nuovo, da cui per altro alcuni “si difendono”
chiudendosi in se stessi: l’uno rimanda ed è rimandato all’altro. Un quadro di relazioni quasi
obbligatorio che ha riguardato tutti e ognuno ha dovuto rispondere in una maniera o nell’altra.
Anche noi, nel nostro specifico, indipendentemente dalla formazione personale, ci siamo trovati di
fronte a un mondo circolare in cui emozioni-tecniche, operatori-operatori, operatori-utenti, sintomi
fisici-psichici, contesto–cura, erano ricorsivamente collegati.

Escher, Cigni, 1956
Il Tempo
In questa fase di restrizioni necessarie c’è la consapevolezza che stiamo ricorrendo ad ogni mezzo,
per esorcizzare il pavor vacui che incombe e che ci obbliga a riempire il tempo con ogni cosa; e non
è sufficiente affidarsi all’indimenticabile Edoardo De Filippo (“ha da passà ‘a nuttata”) per iniziare
un altro giorno nella speranza di ricevere qualche buona notizia!
È duro ammettere lo smacco del tempo per noi che sin dalle origini dell’umanità abbiamo sempre
cercato di fermare o modificarne l’andamento. Ne parlava già Zenone nell’antica Grecia e da allora
lo abbiamo sempre rincorso! I mezzi che ci stanno aiutando a “passare il tempo” ci vengono dati per
la maggior parte dalla tecnologia virtuale: mostre, biblioteche, programmi televisivi (alcuni molto
discutibili!), musica, balletti, opere, film. L’intero mondo virtuale è a nostra disposizione attraverso
i suoi canali! Scorrono rappresentazioni di realtà che ci fanno viaggiare anche se “all’interno della
nostra camera” per citare un fantasioso autore settecentesco [15]. Sembrerebbe paradossale: finestre
“virtuali” sul mondo ci possono aiutare a guardare anche le realtà in carne ed ossa di tutti i giorni,

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delle persone vere, degli altri che per la nostra organizzazione di vita non abbiamo potuto/voluto
trovare il tempo di vedere fino ad allora! Potenza del tempo! Scandito in altro modo ci può far
rendere conto che non siamo soli al mondo e soprattutto non siamo i soli!

Escher, Superficie increspata, 1950
Lo Spazio
Come lo stiamo vivendo nel momento in cui si è forzatamente ristretto (non solo fisicamente), è
divenuto “circoscritto” in base a restrizioni subite e poi accolte non con qualche difficoltà? Fuori
dalle “quattro mura” è divenuto distanziamento sociale (parola del nuovo vocabolario) protettivo e
separante. Nei fatti relazioni familiari e lavorative sono state messe a dura prova e forse ridisegnate
altre. Indigeni e nativi hanno scoperto di fare parte di una stessa tribù a cui pensavano di non
appartenere!
Che succede quando l’idea dello spazio si restringe improvvisamente richiedendo adattamenti non
sempre possibili? Prendiamo un esempio dai tempi normali, quando degli amici decidono di fare un
viaggio in barca (ovviamente non in panfilo!). Lo spazio-barca [16] è una dura prova, un luogo
piccolo e nuovo a cui abituarsi che mette a rischio l’utilizzo di tutte le risorse personali e mentali,
dal momento che richiede un atteggiamento munito di flessibilità e tolleranza diverso da quello a
cui si è abituati. Il rischio reale è di generare dinamiche interpersonali non sempre gestibili, col
rischio di scatenare aggressività ed istinti primordiali per la sopravvivenza! Lo spazio-barca è un
esempio di come in situazioni normali si possa generare una vera e proprio situazione di crisi anche
fra persone che si conoscono!
Il bisogno di uscire – dato per scontato fino ad oggi – diventa “desiderio” di poter respirare una
boccata d’aria! Irrompe improvvisamente nella nostra vita ridisegnandone forzatamente le necessità
e mettendo a dura prova i meccanismi adattivi personali! Una immagine surreale, simile a “l’aria
dei carcerati” che per tutto il giorno aspettano con ansia l’ora di aria, appunto! Non è un caso che
per descrivere questo stato d’animo i francesi usino la parola confinement (traduzione letterale:
confinamento ma anche reclusione). Allo stesso modo siamo quasi “obbligati” a riflettere sul nostro
sistema di relazionarsi spesso autocentrato e difensivo, pronto a chiudersi verso possibili minacce
degli altri. Sembra paradossale che il virus ci abbia fatto scoprire alcune cose “nuove” (che poi
nuove non sono!). Ad esempio: nuovi modi di lavorare da casa, meno consumismo (obbligatorio
causa chiusura di molti negozi), il “ritorno” dell’essenziale”, la scoperta che l’inquinamento e la
diminuzione delle polveri sottili possono essere ridotti (ma non si era detto che era un processo
inarrestabile e inevitabile?).

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Qualcosa non quadra! Questo virus ci ha scosso sin dalle fondamenta. È divenuto un “terrorista”: ha
attentato alle nostre condizioni di vita! Non so prevedere se il passaggio da questa situazione allo
stato successivo porterà con sè anche l’adozione di nuovi parametri di valori, cominciando dal
cosiddetto capitale umano che forse non è sempre monetizzabile, che l’aumento del Pil non
coincide necessariamente con una maggiore felicità e salute, e che un nuovo modo di vivere è
possibile (con qualche rinuncia!).
In questi momenti siamo stati “costretti” a come pensare/vivere anche il tempo in maniera diversa!
Il tempo attuale è un tempo “sospeso”, “forzato”, “contingentato”, “compresso”, che sta
influenzando le nostre condizioni di vita, Saremo pronti ad eventuali aggiustamenti (forse
cambiamenti)? È difficile rispondere se non accodandosi a valutazioni “comode” basate sul “tanto
tutto tornerà come prima” (passato il temporale si chiudono gli ombrelli). Stiamo facendo i conti su
quanto sia impossibile desiderare il cambiamento senza cambiare, stando fermi col
pensiero/comportamento e sperando solo il ritorno alla nostra normalità rassicurante, salvo poi
ricominciare a lamentarsi del traffico della vita accelerata, delle “bombe d’acqua” etc! Per riflettere
in modo diverso potremmo iniziare a pensare questo periodo come esperienza di tempo vissuto, non
solo subito, marcato dal nostro orologio interno. Lo ricorda Henry Bergson [17] quando nel suo
Memoria e tempo (1889) evidenziava la differenza fra il tempo vissuto (quello interiore) e il tempo
cronometrato (quello sociale).

Escher, Convesso e concavo, 1955
Quale atteggiamento mentale
Come “tecnici del mentale” conosciamo le problematiche del nostro lavoro al quale siamo stati
formati e che ci ha permesso di “imbastire” un rapporto con un pensiero/azione/pensiero
nell’approccio di chi si rivolge a noi. Queste premesse aiutano a porci alcune domande. Innanzitutto
se e come immaginiamo che il contesto di cura possa cambiare, se alcuni elementi o categorie si
dovranno aggiornare [18] per com-prendere (nel senso di prendere insieme) come formare nuove
relazionalità più complesse. Esse sono il frutto di una storia attraversante dimensioni spaziali e
temporali vissute diversamente precedentemente. Col senno del poi, forse potremo leggere questo
periodo come un momento di svolta, arricchiti di nuove consapevolezze e della forza necessaria a
percorrere il cambiamento in atto. In questo passaggio verso un nuovo rapporto e nuove necessità è
utile un pensiero nomade, aperto, capace di uscire da rigide strettoie metodologiche ed adattarsi a
realtà terapeutiche contaminate [19] in cui giocheranno un forte impatto afferenze prodotte da un
quadro sociale modificato, a tutt’oggi non ancora “svelato” ma di cui si possono intuire alcuni
“segni”.

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Escher, Occhio, 1946
Che fare?
Non voglio certo proporre “nuove tecniche” post crisi pandemica né lanciarmi in ardite previsioni.
Lascio gli oroscopi mentali a chi sa leggere nella sfera di cristallo! Più semplicemente, si tratta di
riflettere su come si possa partecipare alla stessa esperienza di cura e quanto la com-passione [20] –
soffrire insieme – possa influenzare la relazione terapeutica iniziata, ancora in corso, sospesa,
ripresa. Non si può considerare la situazione di questi giorni come a sé stante dal percorso
terapeutico. È un dato in continua evoluzione per i motivi che finora abbiamo esaminato e per gli
altri che si consolideranno nel tempo. Qualcosa cambierà e forse attiverà forme d’incontro legate a
nuove necessità. Un esempio su tutti. Non dobbiamo dimenticare come è nata la psicoterapia di
gruppo (nel 1940) a opera di due psichiatri inglesi Heinric Foulkes e Wilfred Bion, in un clima
sociale e culturale minato pesantemente dalle vicende belliche che avevano procurato una enorme
mole di soldati traumatizzati. Per il loro tipo di problematiche, difficilmente risolvibili in termini
individuali, essi sperimentarono l’intervento terapeutico in piccolo gruppo, iniziando cosi un nuovo
approccio dei disagi psichici. È nota la concezione di Bion [21] secondo la quale nessun individuo,
per quanto isolato, possa essere marginale rispetto a un gruppo, o mancare di manifestazioni attive
di psicologia di gruppo; infatti egli afferma che «l’uomo è un animale gregario, e in quanto tale non
può fare a meno di esser membro di un gruppo anche quando la sua appartenenza al gruppo consiste
nel comportarsi in modo da far credere che egli non appartiene a nessuno» (Bion, 1971: 141). Stare
insieme diventa anche «l’occasione di facilitare la percezione dell’esperienza traumatica come
un’esperienza condivisa, anziché come una situazione estrema ed eccezionale» (Pelicier,1989) [22].
Un altro esempio di piccolo cambiamento è costituito dall’approccio psicologico e psichiatrico
verso stranieri provenienti da altri mondi e modi di intendere la malattia e la cura. Sintomi che i
migranti hanno portato, definiti da Callieri [23] «idiomi culturali del disagio psichico», sollecitando,
oltre alle problematiche umane e sociali, anche riflessioni sul nostro modo abituale di conoscenza,
ritenuto il solo possibile. Forse sarà necessaria una diversa attenzione da parte di chi lavora nelle
strutture psichiatriche, territoriali ed ospedaliere, in quanto non si potranno affrontare nuove
situazioni con vecchi servizi [24].  Se non altro, per non ripetere – anche se ad un altro livello ed in
un altro contesto – quanto accadde per l’arrivo degli “stranieri” che ha trovato strutture impreparate
nell’approccio terapeutico da utilizzare. L’intruso culturale aveva fatto irruzione prima nei nostri
pensieri e poi nei nostri ambulatori!
Abbiamo potuto anche apprendere i nuovi contesti e allo stesso tempo osservare come alcuni
paradigmi non fossero più sufficienti nella costruzione di realtà terapeutiche nuove. Come l’identità,
che è un concetto mobile, il tempo e lo spazio rivisitati secondo nuovi calendari, gli spiriti la cui
presenza /assenza ci mette spesso in difficoltà in determinate situazioni cliniche, l’uso del corpo che
in alcune culture veicola il disagio psichico (ho male qui!). Callieri nel suo affascinante Corpo,

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esistenze, mondi [25] ci ricorda come «il mondo della vita ha per soggetto l’esistenza con i suoi
vissuti e non l’organismo a cui la pratica medica ha ridotto la nozione di “corpo”».
In sintesi, penso che bisognerà creare nuovi momenti di ascolto di gruppo in cui sia possibile
raccontarci l’esperienza comune e la sofferenza individuale.

Escher, Sole e luna, 1948
L’orizzonte della crisi
Angoscianti “bollettini” ci annunciano ogni giorno, oltre ai guariti, impressionanti numeri di decessi
che colpiscono il nostro stato d’animo simile per certi versi a quello descritto nel libro postumo di
E. De Martino, La fine del mondo (1977) [26], in cui l’illustre storico delle religioni individuava
non una «catastrofe cosmica che può distruggere o rendere inabitabile il pianeta terra», ma «una
perdita del senso dei valori intersoggettivi della vita umana».
Non penso che si potranno “rimuovere” facilmente le immagini di camion militari che
trasportavano deceduti covid senza che le famiglie abbiamo potuto dare l’ultimo saluto! Quelle
immagini hanno richiamato alla mente il terremoto dell’Irpinia (1980, più di tremila morti), quando
alla sofferenza della perdita dei loro congiunti si aggiunse per alcuni anche un altro dolore: non
poter vedere i propri cari neanche in una tomba perché sepolti in fosse comuni! Due episodi lontani
nel tempo ma toccati dalla stessa doppia violenza. La perdita di vite umane e nello stesso tempo
l’espropriazione della morte e dei suoi rituali fondamentali [27], primo fra tutti la cerimonia
funebre, la mancanza di tempi e modi della condivisione del dolore con parenti amici o l’intera
comunità. In ogni cultura l’estrema separazione è sempre accompagnata da liturgie che variano da
un paese [28] all’altro, ma che hanno lo stesso scopo: lenire il dolore della perdita insieme agli altri.
Ogni considerazione, ogni possibile ipotesi d’intervento non può che essere “viziata” perché fatta
dal di dentro. Non è il momento, forse, di affidarsi a previsioni o a impostazione fideistiche legate
al dio -Algoritmo, né tantomeno al dio-Pil (ambedue forse dovrebbero essere ridimensionati).
Certamente possiamo guadagnare in consapevolezza nel nostro pensare/pensarci in questi tempi e
in ogni futura pratica, come prodotto culturale [29] di un sistema vivente in rapporto con tutte le
parti interagenti con la formazione di questa crisi, visibili e non. A questo tipo di “pasta”
contribuiranno anche altri ingredienti come le afferenze emotive, sociali ed esistenziali di cui

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possiamo adesso considerarne solo la possibile influenza, cogliendone il divenire e non ancora il
divenuto. Tralascio ogni considerazione sulle conseguenze economiche già visibili in alcune
categorie di lavoratori.
In sintesi non possiamo conoscere con quale approccio ci avvicineremo al nostro lavoro! Con quello
di sempre? Ordinario, conosciuto e per certi versi rassicurante per noi e per chi ci chiede aiuto? Le
crisi creano sempre condizioni per qualcos’altro. Un piccolo esempio di cambiamento (come
abbiamo già visto) è avvenuto già nella sperimentazione in questa fase emergenziale in cui non è
stato possibile l’incontro naturale con i nostri pazienti.  L’impiego di alcuni strumenti digitali che
la scienza per fortuna ci mette e a disposizione (tablet, computer, video chiamate con skype, zoom
etc.) rivelatosi necessario per il “continuum” del nostro lavoro è da considerare provvisorio (tranne
in alcune situazioni-limite). Non può diventare un mezzo usuale per il proseguo degli incontri,
diventando un mezzo di alleanza implicita fra terapeuta e paziente, uno strumento di comunicazione
più “comodo” o “più facile”.
Questi canali comunicativi sussidiari devono rimanere tali e non possono sostituire la
comunicazione anche empatica fra paziente e terapeuta, insostituibile nella costruzione di ogni
rapporto di cura.

Escher, Otto teste, 1922
Qualche considerazione finale
Il periodo che tutti stiamo vivendo ci invita (forse!) a uscire da un mondo rigorosamente
autocentrato sullo individualismo e poco sugli altri. Potremmo scoprire, volendo, di essere non solo
interconnessi (anzi iperconnessi!) anche intersolidali. Siamo ovviamente consapevoli che la
solidarietà non virtuale è un’altra cosa. È una direzione verso! Una riflessione immediata è quella
di un cambiamento verso un mondo mentale più sano ed “igienico”, non utopico, ma reale capace di
modificare qualcosa di noi, dentro di noi e di noi con gli altri. È difficile dirlo nel durante della
crisi. Come terapeuti, produttori di cambiamenti, consideriamo molto attentamente l’importanza
dell’alterità: costituisce la pasta del nostro lavoro! Tuttavia, dobbiamo sempre tener presente in
questa particolare situazione la doppia valenza con cui ci avviciniamo a tale evento: come persona
che come gli altri vive questa crisi e come “tecnici del mentale” pronti ad intervenire sui disagi

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psichici attuali e su quelli possibili. I soccorritori saranno indenni da danni? Quali e come essi stessi
metabolizzeranno questa difficile fase?
È troppo presto per poterlo dire: siamo ancora nel centro del dramma! Per comprensibili ragioni
rimando a tutta la vasta letteratura sul trauma e sulle cosiddette sindromi postraumatiche. Voglio
solo ricordare qui lo studio effettuato dalla psichiatra del Colorado, Sharon Wilk (1999)[30] che ha
coniato il termine “disturbo postraumatico da stress di seconda mano” per indicare il disagio che
colpirebbe i soccorritori, e quello più recente di Ari Gounongbé (2015) che ammonisce di «salvare
senza soccombere alla difficile situazione degli altri» [31]. Questi contributi mettono il focus su chi
opera, sui suoi bisogni, sui rischi.
In sintesi, forse non c’è bisogno di nuove tecniche, ma di un nuovo pensiero più elaborato e
condiviso. Il quadro che si va configurando potrebbe rappresentare un’occasione unica nella storia
del pensiero “psy”: trasformare l’esperienza che ci ha toccato tutti in un momento di emergenza in
un approccio comune nel creare spazi di gruppo aperti alla rappresentazione dei vissuti di tutti:
terapeuti, pazienti e tutti gli attori di questo psicodramma collettivo (come avvenne nella nostra
esperienza con i terremotati di Abruzzo)[32].
La nota finale è di ammirazione al lavoro esemplare di tutti quegli operatori sanitari che stanno
lavorando in condizioni estreme perché non adeguatamente protetti. Molti, moltissimi i deceduti. Il
loro impegno, fra le altre cose, ha riportato in auge una parola desueta e di bassa intensità
comunicativa: missione. Essa rimanda all’impegno etico di ciascuno di noi e si associa ad un’altra
parola – forse un po’ dimenticata – passione. Questi termini che io definirei come parole-pensiero,
fanno pensare al nostro lavoro attuale e futuro, al ricordo della terapia /therapeia (che in greco vuol
dire servizio), all’apertura all’altro con cui dobbiamo iniziare un percorso dì cura. Per difendersi
dagli attacchi proditori del virus è essenziale, ora più che mai, utilizzare l’arma del pensiero ed
avere una mente attiva.

Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020

[*] Queste riflessioni (marzo/aprile 2020) sono maturate nel corso di: 1) teleconferenza Psicologi dell’emergenza
Regione Marche (in collaborazione con la Dott.ssa Nicoletta Cella e Dott. Massimo Mari direttore Gores). 2)
teleconferenze Université Populaire “E. De Martino-D.Carpitella”, Paris (in collaborazione con la presidente
Dott.ssa. Morena Campani); 3) Co-visione gruppi di operatori Centri di accoglienza, Roma.
Note
[1] Tra fenomenologia e psicopatologia, Seminario con Bruno Callieri ed Eugenio Borgna (ASSEPsi 2004)
[2]  Dentro e fuori: la natura dello stress in George Devereux, Etnopsicoanalisi complementarista, Franco Angeli
Milano, 2014
[3] Pour une crisologie di Edgar Morin dans Communications 2012/2 (n° 91), pages 135 à 152. Cfr. anche il più
recente testo di J. Diamond, Crisi (Einaudi, Torino, 2019) in cui l’autore  americano descrive come le nazioni,
siano riuscite a riprendersi dalle crisi utilizzando processi di trasformazione
[4] Morin E., Fratelli del mondo in “La lettura” 5 aprile 2020 in cui dice non con qualche amarezza che «stiamo
diventando clienti non familiari di una stessa umanità».
[5] Jung parla dell’archetipo del guaritore ferito, di colui che tiene in sé due poli opposti: il guaritore e il ferito.
Cfr. Jung C. G., Gli archetipi dell’inconscio collettivo (1934-1954), Bollati Boringhieri, Torino, 2008. Anche dalla
filosofia buddista ci viene una suggestione su queste tematiche, come ci riferisce Frank Ostaseski (Saper
accompagnare, Mondadori, Milano, 2019 nuov.ediz.): «Non abbiate paura delle vostre ferite, dei vostri limiti,

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della vostra impotenza. Perché è con quel bagaglio che siete al servizio dei malati e non con le vostre presunte
forze, con il vostro presunto sapere».
[6] A questo proposito rimangono fondamentali (e mai superati) i contributi di Scott D.R., Ashworth P. L.,
Operation of 24  crisis intervention service in theory and practice, Paper given at Annual  Meeting of Mind, 1976 e
di Aguilera D.C., Messick J.M., Intervention en situation de crise The Mosby Company, Saint Louis Toronto
1976.
[7]  Un dialogo surreale fra due ombre, quella di un marchese e quella di un netturbino. Il nobile si sente
oltraggiato per avere vicino la sua tomba uno di rango inferiore, il netturbino. Quest’ultimo, sfoderando la sua
naturale saggezza, ammonisce il borioso nobile del fatto che, indipendentemente da ciò che si era in vita, col
sopraggiungere della morte si diventa tutti uguali, grazie all’azione della morte-livella (la livella come è noto è
uno strumento usato in edilizia per stabilire l’orizzontalità di un piano).
[8] Come ben riferito da Elena Marisol Brandolini nel suo Morire di non lavoro, la crisi nella percezione
soggettiva (Edizioni Ediesse, Roma 2013): «Volevo scrivere un libro sugli ultimi, su quelli che sono diventati gli
ultimi con questa crisi e non ce la fanno più; oppure vanno avanti, inventandosi strategie di sopravvivenza.
Volevo osservare, raccontare, non dare risposte, parlare di condizioni concrete, di donne e uomini concreti,
provare a individuare alcune suggestioni. L’indagine sulla percezione soggettiva della crisi, proposta attraverso
la tecnica del focus group». Questo testo contiene una disamina cruda delle conseguenze di perdita di lavoro  da
cui emergono  umiliazione e rabbia, disperazione ed isolamento, fino al suicidio, come risposta  estrema!
[9] “Pregava” anche in una trasmissione Tv una nota conduttrice in compagnia di un noto politico che si è
servito anche durante la sua campagna elettorale dell’utilizzo di simboli religiosi (crocifissi, rosari, etc.). Papa
Francesco non lo hai mai ricevuto.
[10] Di questi temi – anche se con un taglio diverso – si è occupato l’antropologo Marc Augé nel suo testo Rovine
e macerie (Bollati Boringhieri, 2004) in cui descrive il senso del tempo e la coscienza della storia nell’ambito delle
distruzioni e perdite non solo materiali.
[11] Mollica Richard F., Le ferite invisibili, Il Saggiatore, Milano, 2007
[12] De Martino, E. (1948), Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, nuova edizione 2007, Torino:
Bollati Boringhieri.  Secondo l’autore la presenza (“l’esserci” di Heidegger) entra in crisi nel momento in cui
avvengono degli eventi traumatici imprevisti che egli chiama l’intrusione del negativo.
[13] La società del rischio è un saggio di Ulrich Beck del 1986, pubblicato in Italia per la prima volta da Carocci
nel 2000.
[14] Escher a cura di Bussagli N. e Giudiceandrea F., ed. Skira, 2015. Su questo straordinario personaggio è stato
realizzato il film di Michele Emmer, regista e matematico che è stato uno dei maggiori divulgatori del maestro
olnadese in Italia.
[15] Viaggio intorno alla mia camera di Xavier de Maistre, Mondadori, Milano,1997. L’autore scrisse nel
Settecento questo libretto la cui lettura è stata ripresa molto in questi giorni: fu infatti scritto in periodo di
quarantena (L’autore era agli arresti domiciliari). Fra le tante citazioni di un uomo che non si arrese mai a
“imprigionare” anche la sua fantasia ricordiamo questa: «Nessun ostacolo potrà fermarci; e, abbandonandoci
gaiamente alla nostra immaginazione, la seguiremo ovunque le piacerà condurci».
[16] Debbo questa libera suggestione all’amico e collega Alessandro  Fischetti che  parla del pensiero-barca  a
proposito del pensiero che caratterizza il progettista  navale a differenza di quello edile  che nel suo progetto si
dovrà misurare con  un elemento continuamente mutante  (da A. Fischetti  in Formazione  e costruttivismo in  La
bottega dell’anima Problemi della formazione e della condizione professionale degli psicoterapeuti (a cura di S.
Benvenuto, O. Nicolaus, FrancoAngeli, Milano, 1990: 101).
[17]  Come è noto Bergson tenne ben presente il pensiero di S. Agostino sul tempo, più precisamente, la soluzione
di S. Agostino “psicologica” e filosofica del tempo proposta nell’undicesimo libro delle Confessiones.  Come è
noto il padre della Chiesa tratta parallelamente il tempo come oggetto creato da Dio e contrapposto all’eterno
(tempus factum), e come dimensione soggettiva che si costituisce invece come prodotto di un’esperienza

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individuale, anticipando in un certo modo quella di Henri Bergson. Quest’ultimo, infatti, sosteneva che per il
tempo, realtà dinamica, non si può utilizzare una definizione “statica”, ma una altrettanto “dinamica”. Per
sostenere ciò utilizzava alcuni esempi: «come non concepiremo mai un fiume, sempre diverso per le sue acque, se
non ci fosse il letto su cui scorrono, così lo scorrere del tempo è accompagnato dalla nostra coscienza che fa sì che
noi abbiamo l’apprensione del tempo come memria del passato, attenzione al presente, attesa del futuro».
Famoso è anche l’altro esempio, quello “della zolletta di zuccchero”. «Essa scioglie in un bicchiere d’acqua: la
fisica calcolerà il tempo che lo zucchero impiegherà a sciogliersi secondo un procedimento analitico che va
dall’istante iniziale a quello finale della solvatazione e questo tempo così calcolato sarà definito simbolicamente
uguale per tutte le volte che si misurerà nelle stesse condizioni: mentre molto diverso sarà il tempo vissuto della
mia coscienza che non terrà conto del tempo spazializzato e oggettivato della fisica ma piuttosto dalle mie
condizioni psicologiche di insofferenza o calma: questo sarà il vero tempo per me» (H. Bergson, Materia e
Memoria in Opere (1889-1896): 260 e sgg. Laterza, Bari-Roma 1996).
[18]  A proposito di come ci sia bisogno di adattamenti di alcune categorie (spazio, tempo, dolore, cura etc.) per
affrontare nuove realtà sociali e culturali: Per una semiotica transculturale nella cultura dell’incontro in Ancora
A. Verso una cultura dell’incontro, FrancoAngeli, Milano 2017: 74-102.
[19] Ancora A. La contaminazione in psicoterapia in Il contagio e i suoi simboli di G. Manetti (a cura), Edizioni
ETS, Pisa, 2003.
[20] Il termine “compassione” – parola scritta per intero –  nella nostra lingua e cultura comunemente viene
utilizzato  per indicare soprattutto la pietà o la misericordia, sentimenti legati solo alla sofferenza. Ho scritto il
termine com-passione per marcare meglio il senso di  partecipazione con che nella concezione buddista  ha un
senso di vivere insieme con gli altri sia la gioia che la sofferenza.
[21] W. Bion, Esperienze nei gruppi, Armando Roma, 1971: 141.
[22] Y. Pelicier , La gestion de la crisi est aussi une psychoterapie  in  Quale psicoterapia (a cura di L.Persson)
Edizioni Cisspat, Padova 1990
[23] Callieri B. Postfazione a La consulenza transculturale della famiglia, di Ancora A., FrancoAngeli, Milano
2000: 188.
[24]  “I servizi di fronte al nuovo” in Ancora A. I costruttori di trappole del vento FrancoAngeli, Milano 2006:
130-131.
[25] Callieri   B., Corpo, esistenze, mondi, Eur, Roma 2007
[26] E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini,
Einaudi, Torino 1977
[27] Sulla mancanza di rituali anche in altre religioni (come nella musulmana) cfr. l’originale e drammatico
articolo di Abdessamed ‘Albakii’, maestro delle partenze (raccolto da Ottavia Salvador). Egli, che in Italia sia
occupava delle cerimonie funebri dei credenti musulmani, riferisce quanto è ulteriormente triste morire in tempi
di corona-virus: «la questione più grave è che siamo costretti a trasgredire il rito con il quale accompagniamo il
morto alla sepoltura» (vedi https://medium.com/@ottavia.s/abdessamed-albakii-maestro-delle-partenze). Cfr.
anche El Khayat G. Préface à Pour une thérapie transculturelle de Ancora A. l’Harmattan, Paris, 2019.
Purtroppo, si è ripetuto anche ai giorni nostri (20 aprile 2020) a New York, dove per l’ingente numero di decessi
verificatisi, non c’è stata altra scelta che seppellire i senza nome (e i senza soldi) nelle fosse comuni di Hart
Island.
[28] Ancora A., La morte degli altri, in Attraversando (cura di S. Putti), Eur, Roma, 2014
[29] Prendo in prestito questo termine da Gregory Bateson, epistemologo e filosofo della natura come egli si
definiva, per indicare il divenire di ogni fenomeno culturale. Cfr. G.Bateson, Mente e natura una necessaria unità,
1976, cit. Inoltre é utile leggere la crisi attuale anche nei suoi aspetti ecologici attraverso il testo di S. Manghi, La
conoscenza ecologica. Attualità di G. Bateson, Raffaello Cortina, Milano, 2004.

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[30] Riportato dal Corriere della Sera (inserto del Corriere della salute, 16 maggio 1999). Questo fenomeno non
gode di una bibliografia adeguata (forse perché finora “sommerso”) a differenza del disturbo postraumatico da
stress.
[31]  A. Gounongbé, Secourir sans succomber à la détresse d’autrui, dans Santé mentale n. 200, septembre 2015
[32] Cfr. M. Angelica Maoddi, Stranieri nella propria città Dalle illusioni dei terremotati alle sofferenze degli
sfollati, relazione presentata al Convegno A.I.E.P.P  l’Aquila 23/04/2009.
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Alfredo Ancora, psichiatra e psicoterapeuta, ha insegnato Psichiatria Transculturale presso le Università di
Trieste e Siena. Ha coordinato L’Unità Transculturale del Dipartimento di Salute Mentale di Roma B (III A.T).
È membro dell’International Society for Academic Research on Shamanism (ISARS) è attualmente
directeurscientifique de l’Université  Populaire “Ernesto De Martino-Diego Carpitella” Paris. ll suo ultimo testo
Verso una cultura dell’incontro studi di terapia transculturale FrancoAngeli è stato pubblicato in Francia da
l’Harmattan , in Spagna da Aracne e prossimamente in Russia dall’Accademia delle Scienze di Mosca