Il tunisino (storia di Ahmed) Racconto di  Beppe  Casucci

 

Aristotele (Atene, III secolo A. C.): “conoscere noi stessi è la più difficoltosa delle imprese, in  quanto essa non consiste solo nel saper fare buon uso della ragione, ma anche nel  riuscire a razionalizzare le nostre paure e le nostre passioni. Se saremo in grado di  conoscere e dominare veramente noi stessi, allora potremo capire meglio gli altri e la realtà che ci circonda”.

 

I . Roma, Via del Tritone ore 14.00

Il giovane uomo dalla pelle scura si fece largo a fatica tra i passeggeri, per sedere  esausto nell’unico posto libero rimasto nel bus urbano n. 95. Non era un’ora di punta ma il mezzo era comunque pieno, come spesso accade a Roma costantemente invasa da visitatori, a prescindere dal periodo dell’anno o dal clima.

Il suo nome era Ahmed El Saadi. Aveva 26 anni e veniva da Tunisi, dove aveva dovuto lasciare la famiglia e tutte le sue radici. Era arrivato in Italia dopo una traversata perigliosa dei 200 chilometri di mare che separano le coste tunisine dall’isola di Lampedusa, approdo usuale di migranti irregolari e profughi, accatastati a decine su navigli di fortuna.

Era di buona cultura, sportivo e giovane,  apparteneva ad una famiglia di commercianti impoveriti dalla crisi economica e dai rivolgimenti sociali che ne erano seguiti contro il dittatoriale regime  del Presidente Alì. Dopo molte peripezie, in qualche modo ora era arrivato a Roma; nel suo cuore molte aspettative ed una grande incertezza sul  futuro.

Era salito sul mezzo di trasporto urbano, dopo venticinque minuti d’attesa, alla fermata di via del Tritone, sprovvista di pensilina ed esposta al sole cocente delle due del pomeriggio di una afosa giornata di luglio a Roma.  Il sole a picco non concedeva neanche uno spicchio d’ombra al marciapiede e l‘uomo, per sfuggire all’insolazione,  si era rifugiato nell’ingresso di un negozio d’abbigliamento, malgrado le occhiate oblique del personale e lo scarso andirivieni dei clienti.

<Non può rimanere qui>, l’aveva apostrofato ad un certo punto quella che sembrava essere la gerente del locale: <sta ostruendo l’entrata e mi allontana i clienti>. Ahmed si era spostato di lato, senza fare commenti. L’altra aveva borbottato qualcosa di spiacevole ed era rientrata nel clima temperato del negozio.

Dopo un’attesa resa insopportabile dal clima bollente,  il bus 95 era arrivato e Ahmed vi era entrato con sollievo. A tracolla portava uno zaino con  le sue poche appartenenze.

L‘uomo aveva un’aria  trafelata per il lungo bagno sauna e la conseguente disidratazione, ma il portamento rimaneva contenuto e dignitoso, malgrado l’ambiente affollato e le occhiate di fredda indifferenza. Sprofondò con evidente sollievo sull’unico sedile disponibile, estrasse dallo zaino una bottiglietta d’acqua raccolta in una fontana  e sorseggiò con parsimonia.

Nella mente aleggiavano muti i ricordi degli ultimi drammatici avvenimenti nel suo Paese e delle varie traversie vissute in Italia: la rivolta del pane, l’uso dei militari contro la folla, gli amici morti, il fallimento del negozio d‘abbigliamento del padre. La difficoltà a trovare lavoro.

Poi la decisione di emigrare assieme ad un cugino e ad alcuni conoscenti. Di lui aveva perso le tracce nelle campagne vicino a Manduria, durante una fuga di alcuni “ospiti” dal Centro di Identificazione ed Espulsione locale. Rivisse durante alcuni attimi l’inferno della traversata, l’arrivo a Lampedusa. La gentilezza della popolazione dell’isola e dei volontari, ma anche il feroce accoglimento da parte di molti mass media italiani e – in qualche caso – il duro trattamento ricevuto da qualche rappresentante delle forze dell’ordine.

Saadi si guardò attorno con timore e curiosità: accanto sedeva un uomo impegnato nella lettura di un libro. Il giovane ne osservò i particolari: era un distinto individuo sulla cinquantina, fornito di completo grigio e cravatta, malgrado il clima bollente. Aveva una calvizie incipiente  al di sopra della fronte, il naso era pronunciato ed aquilino, le labbra sottili. I capelli erano scuri  e brizzolati, il ventre apparentemente più prominente per l’uso di una camicia bianca. Il tunisino lo scrutò per alcuni istanti e valutò l’opportunità di chiedergli una informazione, ma la il timore di una brusca risposta e l’italiano approssimativo lo fecero esitare. Aveva già avuto qualche esperienza spiacevole in questo senso, con qualche italiano non proprio ospitale.

 

Anche i due sedili opposti erano occupati. Di rimpetto torreggiava una donna corpulenta non  più giovane, mentre – al suo lato –   un teenager sembrava immerso nella musica che sgorgava a fiotti dalle cuffie incollate alle orecchie.

Alla fine, comunque si decise. Ahmed ripose l’ingombrante  zaino a fianco del sedile e sussurrò, a metà tra il francese e l’italiano: < dans la rue, il y aura plus di quaranta gradi, c’est terribile>. Il commento cadde praticamente nel vuoto; il vicino di posto, infatti, abbozzò una smorfia  d’incomprensione. <Il caldo è tanto>, aggiunse il tunisino a spiegazione . L’altro borbottò un assenso e poi continuò ad ignorarlo.

Leggermente scoraggiato Ahmed pensò a qualche tema che potesse aiutarlo nello stabilire un minimo tema di dialogo. Per semplice curiosità, il giovane tunisino si sporse in avanti e diede un’occhiata alla copertina del libro in mano al suo occasionale compagno di bus. Si trattava di   “Ubik“, di Philip K. Dick, un classico della fantascienza.

Saadi l’aveva letto di recente. Glie l’aveva regalato suo fratello che aveva studiato a Cambridge,  in Inghilterra e che amava molto gli scrittori americani. In effetti,  Ahmed aveva con sé una copia  del libro nello zaino, con l‘idea di rileggerlo quando avesse  avuto un momento di tranquillità. Il giovane lo estrasse e lo mostrò al vicino: era una versione in inglese.

<L’ho letto anche io da poco tempo>, comunicò al suo book- mate. L’altro non mostrò gran che interesse, sorrise obliquamente di nuovo e ritornò al secondo capitolo del libro.

Ahmed ne ricordava bene la trama, in quanto il racconto l’aveva notevolmente impressionato. E ne rammentava anche  il piacere della lettura, fantastica, scorrevole e ricca di ambiguità, così come era stata la burrascosa esistenza del suo autore, morto tossicodipendente. Come spesso succede ai grandi, durante i suoi 54 anni di vita Dick aveva sofferto a lungo di problemi economici, frutto anche di un’esistenza alquanto disordinata. E questo, malgrado la sua notorietà come scrittore fosse in crescita anche prima della morte avvenuta nel 1982. La fama internazionale era venuta dopo, con la realizzazione da parte di Hollywood del film “Blade runner“, con Harrison Ford. Se non ricordava male, una casa cinematografica aveva recentemente programmato una produzione proprio di Ubik, così come era successo  con altre opere di Dick, come  “Total recall”,  “Minority report”, “Paycheck”, “A scanner darkly” e, ultimamente “Adjustment Bureau“,  tutte pellicole  tratte da libri dello stesso prolifico scrittore.

Anche John Lennon, nel suo periodo newyorkese ne aveva apprezzato le qualità e, per un po’ aveva accarezzato il progetto di finanziare la produzione di un  film, basato su di un altro successo di Dick: “Le tre stigmate di Palmer Eldrick”.

<Che ne pensa di questo libro?>, Ahmed tentò un nuovo approccio col compagno di viaggio. Questi si distaccò per un attimo dalla lettura,  lo guardò e sorrise ma rimase silenzioso.

<E’ stupendo – proseguì incoraggiato il tunisino – ma anche molto strano ed a tratti incomprensibile>. Il suo tentativo era quello di stabilire un tema di dialogo col vicino di posto. L’altro, però,  borbottò che era ancora all’inizio della lettura, si scusò e tornò al libro.

Ahmed aprì la sua copia e prese a sfogliarla, lesse alcune righe e cominciò a ricordare.

 

  1. Ubik

La storia di Ubik era ambientata in un futuro indefinito in cui la società è tecnologicamente molto avanzata, ma anche in profonda decadenza. L‘umanità ha ceduto alla tecnologia parte del proprio protagonismo e tutto il lavoro manuale. Ma è una società mercificata e senz’anima, dove ogni elettrodomestico e perfino le porte, per funzionare, chiedono di essere pagate in anticipo e dove i mass – media utilizzano robot invasivi per turbare la privacy di ognuno e vendere un  prodotto informativo interamente composto da pettegolezzi.

<Un rischio non tanto teorico anche nella realtà>, rifletteva il giovane tunisino.

Nel mondo di Ubik  telepatia ed energia mentale sono molte sviluppate in alcuni individui dotati di questi talenti che li utilizzano  anche a  fini di spionaggio finanziario, industriale e commerciale. Ci sono dunque Psi e pregogs, ma anche i loro alter ego, antipsi ed anti pregos, utilizzati per contrastare gli uni agli altri.

Il protagonista principale, Joe Chip, è un tecnico impiegato nella Runciter Ltd. Anti Precogs, società specializzata in annullare gli effetti dell‘influenza dell‘energia mentale di individui particolarmente dotati. Il suo lavoro: misurare la presenza e l’intensità di queste influenze, con l’uso di una sofisticata apparecchiatura specialistica.

Un giorno  Joe partecipa,  assieme al suo capo, Glen Runciter ed a dieci suoi colleghi, ad una missione sulla Luna dove cadono nella trappola di una società di precogs e  vengono coinvolti in un’esplosione, in cui l’unica vittima è il  titolare della società. I superstiti trasportano il corpo di Glen Runciter  a Zurigo, presso un moratorium per semi vivi, dove barlumi di coscienza del cervello possono essere conservati dopo la morte. In quello strano universo, infatti, la coscienza può essere  risvegliata e la persona consultata a piacere dai familiari, fino ad esaurimento delle cellule grigie. Dopo l’esplosione, però, Joe Chip ed i suoi compagni cominciano a ad osservare strani fenomeni  di regressione e perdita di consistenza della realtà: sigarette che si sbriciolano, caffè che perde sapore, elenchi telefonici che invecchiano, ascensori ed artefatti che regrediscono a precedenti livelli tecnologici; denaro che va fuori corso. Ed ancora, altri avvenimenti inspiegabili: il volto e messaggi di Runciter cominciano ad apparire attraverso spot pubblicitari in TV e sulle banconote, mentre frasi scritte dal loro capo e riferite all’incidente sulla Luna, si materializzano in confezioni di prodotti inscatolati settimane prima dell’attentato. Infine, cosa più grave, uno alla volta i suoi compagni cominciano ad essere vittime di un fenomeno inspiegabile che li porta  – uno dopo l’altro – alla consunzione, alla mummificazione ed alla morte.

Dopo molte ipotesi per spiegare il rompicapo di quella situazione, una domanda obbligata si affaccia  alle riflessioni dei superstiti del gruppo: chi è morto davvero nell’esplosione e chi è ancora vivo? C’è Glen Runciter in animazione sospesa al moratorium, o ci sono Chip ed i suoi compagni? Qual’è la realtà e quale il sogno? Joe Chip non conosce le risposte, mentre il susseguirsi degli avvenimenti invia segnali contrastanti e, fino alla fine del libro, una interpretazione univoca è  impossibile anche per il lettore.

Nella tormentata e geniale visione del mondo di Dick, dove la società è inevitabilmente condannata al declino, sembrano regnare l’eterna dualità ed ambiguità che dividono il sogno dalla realtà, almeno nella nostra percezione: cos’è reale e cosa non lo è? Cos’è giusto e cos’è sbagliato?  Ed ancora: quello che facciamo,  le nostre scelte, le nostre azioni, influenzano o no il percorso del nostro tempo individuale ? Oppure il tutto è già definito e a noi non resta altro che subire inerti un tracciato esistenziale inamovibile? Domande che l‘umanità si è posta da tempo immemorabile e non dissimili da quelle che il giovane tunisino si riproponeva ogni giorno  nel corso della sua personale Odissea.

<Pazzesca la fantasia di questo scrittore>, pensò ad alta voce il giovane: <alcuni episodi appaiono frutto di allucinazioni, altri profondamente attuali>. Concluse poi: <certo, la tecnica dello scrittore e la dinamica del racconto lasciano senza fiato>.  Malgrado la pertinenza dei commenti, il suo vicino non appariva interessato, né socievole e dopo alcuni mugugni  rispose secco: <grazie, ma se continua a parlare, non riesco a concentrami>.

Il suo compagno di viaggio, in effetti, era immerso nella magia del libro: nel terzo capitolo, Joe Chip conosce Patricia, un’anti precog capace di tornare con la mente al passato e cambiare a piacere avvenimenti personali: con la  conseguenza  di modificare pezzi di inerente futuro. E questo senza dover viaggiare fisicamente nel tempo. La ragazza – che si rivelerà essere un’infiltrata nel gruppo, al servizio di una società rivale – mostra a Chip un esempio pratico del suo talento, modificando un aspetto del  loro presente e riuscendo a farsi assumere nella ditta Runciter.

 

III. Il centro di Roma in un pomeriggio di luglio

Ahmed, poco felice dell’incomunicabilità del vicino, tornò faticosamente  concentrarsi su quella che  era la sua realtà. Il mezzo di trasporto era moderno, consumava metano ed era provvisto di climatizzazione. Veniva da Villa Pamphili ed ora scendeva lungo via del Tritone diretto alla Stazione Ostiense: percorso obbligato che scende lungo via del Corso, Piazza Venezia, passa accanto alla Bocca della Verità, costeggia il Lungotevere, attraversa il rione Testaccio per arrivare alla Piramide e, subito dopo, alla stazione Ostiense. Da lì parte il trenino per la spiaggia ed il comune di Ostia, dov’è ubicato uno dei rifugi della Caritas per i poveri ed i senza tetto, sempre di più frequentato da migranti e punto d’arrivo in cui  il nostro protagonista sperava di trovare ristoro e riparo per la notte.

Così, almeno gli era stato suggerito  da uno dei volontari del CIR a Manduria che gli aveva  fornito alcune informazioni e consigli.

Il centro di Roma, a quell’ora post meridiana, era particolarmente trafficato ed il bus procedeva a stento tra semafori e turisti che attraversavano le strade disordinatamente.  Grazie al climatizzatore, comunque, dentro il mezzo  si riusciva a respirare. Fuori l’aria sembrava vibrare, scossa dal calore dell’asfalto, distorcendo la forma delle cose ed annebbiando i pensieri dei malcapitati in giro per Roma.

Frotte di turisti, apparentemente allo sbando, camminavano faticosamente sotto la canicola implacabile, provenienti da Fontana di Trevi e  diretti verso Trinità dei Monti. Indossavano grandi cappelli, camicie e magliette colorate e sembravano allegri e rumorosi, malgrado un clima meteo di allerta 3.  Qualcuno aveva tentato il bagno nella fontana di Trevi, ma era stato inevitabilmente respinto dai vigili urbani. A tratti, frotte di asiatici, americani e mitteleuropei invadevano la corsia dei bus rendendo il loro incedere ancora più difficile.

 

Mischiati alla rinfusa ed in continuo movimento sui marciapiedi, circolavano anche molti esemplari di gente comune; uomini e donne  che lavorano a luglio e sognano il mare o viaggi esotici. Ma quel giorno, le ferie di agosto sembravano più lontane della galassia di Andromeda e, nel frattempo, bisognava vivere alla giornata, sperando in qualche temporale o il rifugio effimero dell‘aria condizionata. Dentro l’autobus, comunque, si era in un altro mondo, climaticamente sopportabile, ancorché umanamente elettrico.  Ahmed osservava quegli esemplari di umanità dal finestrino del bus, riflettendo che in una situazione di stress o di estrema difficoltà non è inusuale rifugiarsi nei ricordi piacevoli o nella sana fantasia offerta da una buona lettura.

Nel quarto capitolo, a Mr. Chip arriva via posta uno spray di nome Ubik che, utilizzato secondo indicazioni contenute nel pacchetto,  ha il potere di rallentare la percezione di regressione della realtà. Joe nebulizza la sua persona con lo spray e riesce ad evitare  di fare la fine di alcuni dei suoi compagni, in particolare della collega Wendy Wright per la quale aveva un debole. In effetti il corpo di lei, mummificato, viene inspiegabilmente scoperto nell‘armadio della sua stanza d‘hotel. Una stanza il cui telefono è abilitato solo a ricevere la voce di una sola persona che parla ma non ascolta: Ben Runciter. Il messaggio è sublimale ed insinua indirettamente che Chip stia vivendo in un’altra realtà, effimera e instabile.  Ma anche Ubik soffre gli effetti della regressione temporale della materia in atto in quel mondo crepuscolare ed alla fine  Joe comprende che, se si vuole salvare, dovrà fare i conti solo su se stesso e sulle proprie forze.

Un  messaggio di Runciter, durante uno spot televisivo, gli consiglia di non separarsi dagli altri, perché il pericolo aumenta con l’essere soli, come se la consistenza delle cose possa unicamente dipendere dalla socialità degli uomini.  L’unica speranza di sopravvivenza viene dunque dal rapporto con altri esseri umani.  Ahmed si distaccò dal ricordo del quarto capitolo, lasciò il mondo di Ubik e tornò al proprio, dove la socialità con gli altri passeggeri appariva altrettanto problematica di quella sperimentata da Joe Chip.

 

  1. Storia di Ahmed

L’uomo dalla pelle scura, estrasse il fazzoletto e cominciò ad asciugarsi il sudore, tra l’evidente fastidio dei suoi compagni di viaggio.  Era vestito con una giacca consunta di jeans leggero, camicia bianca, pantaloni di lino marrone scuro, un berretto dello stesso colore ed una cravatta rosso bordeaux. Ai piedi calzava scarpe  da ginnastica logorate dal tempo e dai chilometri. Veniva dai sobborghi di Tunisi e, per farlo, aveva attraversato il Mediterraneo, su di una carretta di fortuna,  a suo rischio e pericolo.

Nell’ultimo decennio 16 mila persone erano morte nel tentativo di attraversare il Mare Nostrum ed emigrare in Europa. A lui era andata bene, anche se il viaggio gli era costato 1500 euro, pagati in anticipo allo scafista, più altri 1000 euro di  debiti contratti in patria; debiti che doveva onorare quanto prima. Lì la sua famiglia aspettava ansiosa qualche risultato dal suo lavoro. Il Presidente Alì se n’era andato, ma il futuro della  gente rimaneva oscuro, malgrado le promesse del  Governo provvisorio. Per questo molti giovani abbandonavano il Paese.

Il viaggio poi era diventato una vera odissea. Dopo una traversata tempestosa, assieme a suo cugino ed altre 34 anime in una bagnarola di 25 metri, Ahmed era stato gettato in mare dagli scafisti all’arrivo della guardia costiera maltese. Fortunatamente era stato quasi subito salvato  – assieme agli altri sventurati – dagli stessi militari, che avevano anche arrestato gli scafisti. Ma non era stato portato a Malta: ricaricati sulla stessa malconcia barca, lui ed i suoi  compagni erano stati scortati fino al limite delle acque territoriali italiane e, di fatto, spediti verso Lampedusa, dov’erano arrivati senza altri drammi.

In effetti la barca era stata presto intercettata da una nave della Marina italiana che aveva dato loro soccorso e li aveva scortati fino all’isola.

Lì Saadi era rimasto bloccato per molti giorni al largo della Sicilia, con la minaccia di una espulsione incombente. Poi il miracolo: il trasporto al campo profughi di Manduria in Puglia. La fuga di suo cugino assieme ad altri migranti e, poco dopo, la concessione di un permesso temporaneo per sei mesi e la rimessa in libertà.

O, per meglio dire, l’abbandono a se stesso. Nessuno gli aveva dato soldi, cibo o un biglietto di viaggio. Nessuna indicazione sul dove andare o su quali strutture o istituzioni contare.

Tranne la buona volontà di qualche associazione di volontariato, la solidarietà del Bel Paese si era ridotta al pur importante permesso.  Solo un consiglio era venuto dalla polizia, un consiglio che assomigliava tanto ad una diffida: <se hai parenti in un altro Paese europeo, è meglio che tu vada lì. Perché in Italia – alla scadenza del permesso temporaneo – non si sa cosa succederà>. Ahmed, però, preferiva rimanere in Italia e tentare la sorte a Roma o nelle prosperose città del Nord.

La Francia era l’ultima chance, anche perché voci circolate nel campo profughi a Manduria, raccontavano di difficoltà ad espatriare e che le autorità francesi bloccavano tutti al confine di Ventimiglia.

Ad Ahmed, inoltre, erano rimasti pochi soldi e per qualche settimana il giovane aveva lavorato nella raccolta di pomodori nelle campagne attorno a Cerignola. Ma lì la vita era troppo dura, tra orari e condizioni di lavoro inumane, caporali che assomigliavano troppo ai trafficanti di carne umana ed anche agli usurai che minacciavano di perseguitare la sua famiglia se non avesse pagato presto.

Il lavoro era massacrante: 12  – 14 ore al giorno sotto un sole implacabile; un caldo spesso vicino ai 40 gradi, per 25 euro, di cui 5 trattenuti dal caporale. Il costo di un magro vitto veniva trattenuto dal salario dagli stessi aguzzini, ad un prezzo esorbitante;  alla sera venivano trasportavi in una baracca indegna dei peggiori sobborghi di Tunisi, anche quella a pagamento, naturalmente.

Di notte Ahmed dormiva assieme ai suoi compagni di sventura in  un pagliericcio dal colore indefinibile, magari dopo essersi lavato con l’acqua di un pozzo. Erano soprattutto africani a dormire in quella baracca. Migliori condizioni, a quanto sembrava, venivano riservati a migranti arrivati dall’Europa dell’Est, rumeni e moldavi particolarmente. Almeno, quelle erano le voci che circolavano.

Alla mattina, sveglia alle 04.30, colazione con pane, olio, olive, frutta e un po’ di Coca Cola e, saltuariamente, formaggio. Qualche volta rimediava anche del caffè, filtrato alla meglio da un compagno marocchino che possedeva una macchinetta napoletana. E  poi via col camion che li portava a quel  lavoro forzato che sempre di più assomigliava ad una moderna  schiavitù .

Alle 12 un frugale pranzo con acqua, pane olive e formaggio. Solo alla sera erano in grado di prepararsi qualcosa di caldo, pasta o zuppa cucinate alla meglio in fornelli elettrici. Alla domenica il marocchino cucinava Cus Cus, con ingredienti che Ahmed non riusciva a capire dove recuperasse. Ma soprattutto abbondava molto il vino, per dimenticare una realtà insopportabile. Lui però non toccava alcool, secondo le sue tradizioni. Solo acqua o del tè caldo. Era davvero inquietante che una simile forma di  sfruttamento estremo prosperasse proprio nella terra di Di Vittorio, che tanta parte della sua vita aveva dedicato alle lotte bracciantili.

Qualcuno aveva provato a ribellarsi, ma era stato massacrato di botte e lasciato lì per terra, esamine ai bordi della proprietà, oppure era semplicemente svanito. Alla fine Ahmed ed alcuni compagni avevano deciso di dire basta. Ma senza far rumore e senza pretendere nulla, perché alzare la voce, chiedere di essere trattati come esseri umani, poteva essere molto pericoloso. Semplicemente, avevano aspettato il giorno di paga, il sabato. Dopo di che avevano lasciato di notte la baracca, dirigendosi verso Foggia, prima a piedi e poi con un bus che passava per la provinciale.  Lì si erano separati, perché alcuni di loro volevano andare in Campania, a Castel Volturno, alla ricerca di altro lavoro, sicuramente nero. Altri avevano optato per la Francia o il Belgio. Lui, invece, aveva preso un treno per Roma, dopo essersi lavato e cambiato al bagno diurno della stazione di Foggia.

Dopo aver mandato parte del magro salario a casa, gli erano rimasti un po’ di soldi, ma non molti. Meglio comunque lasciare il Sud Italia  e rischiare la fortuna nella capitale. L’avevano informato che nelle campagne presso Latina avrebbe potuto cercare lavoro, ma aveva anche saputo che quella era un’area praticamente riservata a migranti di origine indiana.

Qualcuno gli aveva suggerito il mercato centrale della capitale, dove si poteva lavorare alle prime ore dell’alba per scaricare le merci. Altro lavoro nero era possibile trovarlo nel settore edilizio. Anche in questo caso però si doveva passare attraverso i cosiddetti caporali, altrimenti si era esclusi. Ad Ahmed era stato dato anche un riferimento: l’incrocio tra via Ardeatina e Tor Carbone, alle 04.30 di mattina. C’era anche la chance di riuscire a trovare lavoro in qualche ristorante, magari etnico. Se anche a Roma le cose fossero andate male, comunque, c’era sempre il Nord Italia e, come  ultima possibilità, Ahmed avrebbe potuto tentare di passare in Francia o in Belgio, Paesi dove almeno si parla il francese. Aveva uno zio a Marseille: forse l’avrebbe aiutato. Ma non lo vedeva da anni e Ahmed non era molto fiducioso di ricevere una buona accoglienza.

Immagini e ricordi  aleggiarono per lunghi istanti ai bordi della coscienza, assieme ad una struggente nostalgia di casa, della famiglia, degli amici. Una emozione che poteva assumere la forma di dolore fisico. In quanto irragiungibili, non erano ricordi piacevoli, ed il giovane tunisino se ne allontanò cercando con la mente rifugio sul mondo fantastico di Ubik,  Aprì la sua copia di libro e sfogliò il quinto capitolo.

 

  1. Tra cruda realtà e voglia di allucinazione

Joe Chip decide di  recarsi a Des Moines, nello Iowa  da New York, per  partecipare al funerale di Ben Runciter, titolare della ditta. Ma la sua realtà continua a  trasformarsi nella forma della materia e nel tempo, a periodi anteriori la seconda guerra mondiale. La porta del suo appartamento al 37° piano di un grattacielo di New York è l‘unica a non regredire e continua a pretendere di essere pagata per aprirsi.  Tutto il resto, invece, assume forme che appartengono al passato: l’ascensore super veloce che l’aveva portato al suo flat si trasforma in un lift con operatore in divisa che ricordava la prima metà del ‘900. Ma assume un aspetto tanto pericolante che Joe decide di scendere utilizzando le scale.

 

Arrivato al pianterreno, Mr. Chip scopre che la sua BMW si è trasformata in un pezzo d’antiquariato: una La Salle d’epoca, a cambio manuale. Joe si reca all’aeroporto e scambia l’auto con un passaggio su di un aereo regredito a biplano biposto, con motore ad elica.

Dopo un viaggio lunghissimo, Joe arriva a Des Moines, dove apprende di essere nel 1939. La sua realtà si è apparentemente stabilizzata.

In quella città, tra la gente, l’argomento del giorno è l’imminente probabilità che la Germania entri in guerra. Un tassista gli rivolge alcune domande e quasi subito Joe si rende  conto che  sua conoscenza della storia futura lo rende sospetto agli occhi  degli abitanti di quel mondo da tempo tramontato. Infatti, i dipendenti della Runciter Ltd. lì sono degli stranieri anzi, peggio, culturalmente estranei, prigionieri in un’epoca che non è la loro, con conoscenze, idee e credenze estremamente non convenzionali agli occhi delle persone di quel tempo. 

Il gruppo di anti psi ed anti precogs, appare nello Iowa del 1939 eccezionalmente fuori posto, come un cane in chiesa, Considerati magari un gruppo di agenti provocatori stranieri, praticamente dei probabili sabotatori o terroristi.

Joe Chip per il tassista, appare non solo diverso, ma soprattutto fuori contesto, inaffidabile e inevitabilmente sospetto.

 

  1. Tra rifiuto e bisogno di socialità

Ahmed ritrasse gli occhi dal libro e si guardò intorno e, con un sospiro di intuizione, realizzò di essere anche lui nell’ambiente romano, simile a Joe Chip. Di attraversare un’area potenzialmente inospitale, dove la gente lo considerava uno straniero, un migrante dalla pelle scura, a dir poco diverso ed estraneo. Il giovane tunisino scrutò le persone sull‘autobus, posando fugacemente gli occhi sui suoi compagni di viaggio, cercando uno sguardo, anche solo un attimo di attenzione: la prova che anche lui, come gli altri, era lì, esisteva. Non trovò nulla di tutto questo. Per  gli altri passeggeri, Ahmed era solo un africano, sudaticcio e trasandato: un disturbo per la vista e per la coscienza e, come si sa, quest’ultima classe d’impiccio è considerata forse la più fastidiosa, soprattutto  per chi di coscienza ne possiede poca.

 

Al suo sguardo insistente, il passeggero a fianco distolse infine l’attenzione dal libro, fingendo di osservare le immagini che si alternavano sul monitor appeso al soffitto, ma  soppesando in realtà  con la coda dell’occhio l’uomo al suo lato.

Esibiva un insofferente distacco e pensava: <ma questo cosa vuole, soldi? Proprio qua doveva venire a sedersi ‘sto baluba…>. <E guarda come si agita. Mi ha già urtato due volte con il gomito. E Poi ha un sudore acido che sa di rancido. Io non sono razzista, però ….. tutto ha un limite>.

Ahmed guardò di nuovo il compagno di posto abbozzando un nuovo sorriso, ma l’altro distolse di colpo il capo e tornò apparentemente a leggere.

Nel sesto capitolo Mr. Chip realizza che Patricia non possiede più il potere di manipolare avvenimenti passati per cambiare il presente. Anzi, nessuno dei suoi colleghi anti psi ed anti precog è più in grado di esercitare alcuni dei propri  talenti. In ogni caso due forze appaiono essere in azione e contrapposizione in quel mondo in disgregazione: la prima di carattere entropico, capace di esaurire ogni forma di energia e di calore, volta a minare la stessa consistenza della realtà e di produrre una fredda dissoluzione dell’esistenza. La seconda, Ubik, sembrava al contrario opporsi a questo letale processo, riuscire a ritardarne per un po’ gli effetti. Una forza amica, dunque, volta a preservare la  vita, aggrappandosi ad essa in qualsiasi modo ed in qualunque forma. 

La perdita dei poteri degli anti precogs porta Joe Chip a considerare la possibilità che siano il suo corpo e quello dei suoi colleghi e giacere in condizione di semi vita al moratorium di Zurigo. E che, al contrario,  il funerale di Runciter a Des Moines nello Iowa, sia solo una allucinazione delle loro menti in animazione sospesa. Il sospetto è che quello che esperimentano attorno a loro sia, il prodotto di un’entità maligna, oppure solo frutto della tenace ostilità delle loro menti ad abbandonare il mondo  dei vivi. Se  questa interpretazione fosse vera , comunque, l’esistenza di Ubik ed i messaggi di Runciter, sarebbero anche il segno che il loro datore di lavoro è forse l’unica persona del loro gruppo  sopravissuta all’esplosione sulla luna e che i segnali di contatto sono tentativi da lui realizzati al moratorium di Zurigo.

 

 

<Ma questa interpretazione, pensa Joe Chip ed Ahmed con lui, non spiega i fenomeni di regressione della realtà, né la fredda consistenza del corpo di Runciter concretamente presente nella camera mortuaria di quella città dello Iowa>.

E soprattutto non spiega Ubik che in nessun caso sarebbe potuto provenire dal mondo dei vivi, essendo fatto di materia concreta.

Dunque, per Chip, un’altra interpretazione va ricercata, una logica nel percorso dell’esistenza individuale di ognuno di loro. Una teoria capace di spiegare, insieme, la regressione della realtà e del tempo, la morte progressiva dei suoi colleghi, e l’azione di Ubik.

Prevale ancora una volta, in questo racconto di Dick, il trionfo dell’ambiguità tra reale e immaginario. Realtà e fantasia, sanità mentale ed allucinazione, si mescolano insieme, in una trama complessa ed affascinante. Il dubbio che si insinua nelle menti di Ahmed e di Joe Chip è  che quello che percepiamo del mondo che ci circonda, sia solo una impressione individuale, non  necessariamente condivisa dal prossimo. Il tutto è classico della geniale  e disturbata mente dell’autore del libro, ma anche della sfuggevole concezione della realtà e della sua evoluzione nel tempo che l’umanità sperimenta ogni giorno nella vita che considera certa e concreta, tranne nei sogni particolarmente vividi.

 

VII. La facile strada dell’esclusione delle diversità

Le divagazioni di Ahmed furono di colpo interrotte e ricondotte alla realtà percepibile nell’autobus numero 95.

La signora, sul sedile di fronte, agitò una grande borsa e ne estrasse un ventaglio: <clima africano!>, sentenziò rivolta a tutti, poi sembrò accorgersi dell’uomo seduto di rimpetto, tentò di rimediare, ma se ne uscì con una gaffe ancora peggiore:  <io non so come fanno i  negri, lì in Africa, tutti i giorni là con un caldo pazzesco di 50 gradi>, disse fissando lo sguardo sul finestrino al suo lato sinistro, come se il suo interlocutore si trovasse fuori dal bus. <Certo – aggiunse poi accennando uno sguardo verso Ahmed – voi magari sarete pure abituati all’afa con la giungla, le capanne, i leoni e tutto il resto …>.

 

Poi capì di averla detta grossa e rivolse una debole scusa al monitor appeso al soffitto: <non ci faccia caso sa, a me mi escono al naturale>. Infine, concluse contraddicendosi:  <da voi è un caldo secco, non è vero?>. Il monitor però rimase indifferente.

Ahmed sorrise tristemente al razzismo sottinteso ed agli insulti. Evitò comunque di rispondere, tornando ai propri gravosi pensieri. Ad un tratto ricordò che quel giorno non aveva ancora chiamato a casa e che i suoi cari erano certo in ansia. Estrasse dalla tasca un vecchio modello di Nokia ed una phone card comprata a piazza Barberini: di quelle che con 5 euro parli  per ore con il tuo Paese. Chiamò il numero verde, una voce registrata rispose; compose poi un lungo PIN ed alla fine il codice paese, quello di Tunisi ed il numero di casa.

Dopo un attimo stava parlando in arabo a voce concitata, come chi teme che la voce venga indebolita dalla distanza. <Sì Halima, sto bene. Ti chiamo da Roma>, diceva: <ora vado al centro di accoglienza della  Caritas, dove spero di trovare qualcosa da mangiare e un letto per dormire stanotte. Domani cercherò un lavoro, al mercato centrale. Come stanno i bambini?>. Frasi importanti per la sua famiglia, che lui cercava sempre di tranquillizzare anche quando il suo cuore era pesante e la voglia di urlare era forte.

Si sentiva solo, con una limitata ed incerta prospettiva di fronte, un futuro che poteva immaginare a stento solo giorno per giorno. Ahmed El Saadi cercava solidarietà, uno sguardo amico, o almeno non ostile; magari gente disposta a dare informazioni, o anche solo a rivolgergli la parola.  Ma il suo dramma e quello della gente come lui – che  pure campeggiava sulle prime pagine dei quotidiani ed in televisione tutti i giorni –  era una storia  lontana, estranea al privato degli italiani e che – apparentemente – non arrivava all’anima dei suoi occasionali compagni di viaggio, in quell‘autobus nel cuore di Roma in quella bollente giornata di luglio.

Il suo vicino di posto, anzi, era sempre più irritato: <‘sti negri!>, pensava, <educazione manco a parlarne! Starnazzano al cellulare ad alta voce, e non badano certo al fastidio  che danno al prossimo>. <Arrivano qui dal Continente Nero e subito vorrebbero farla da padroni. Ecco perché alla fine la gente si stufa>.

 

Aggiunse poi a giustificazione del pensiero poco caritatevole: <con tutti i problemi che  abbiamo qui in Italia: dal lavoro che scarseggia, i soldi che non bastano mai, ci manca solo l’esodo degli africani>.  <Ma se continua così – continuò accalorandosi a scena muta – mi giro e gli dico di farla finita!>. Questo pensava il signore in abito scuro. Ma, come dice un proverbio: “Chi far dei fatti vuole, risparmiar deve le parole”. Nella sua testa, invece,  di parole ne giravano tante, complice anche la calura. Ma quanto ai fatti, era un altro par di maniche. E meno male! Così si limitò a sistemarsi meglio sul sedile sgomitando il suo vicino, che si ritrasse timoroso verso il finestrino.

Il tunisino concluse presto la telefonata, anche perché aveva poco credito e pochi soldi. Guardò alle informazioni sul monitor e realizzò, aiutandosi con il francese, che stavano procedendo lungo via del Corso. La signora di fronte, intanto, s’agitava forsennatamente assieme al ventaglio, guardando in giro e fissando a tratti lo sguardo, con malcelato sospetto, sul suo dirimpettaio. Indossava una parrucca vistosa color ramato, un ampio vestito di cotone color giallo paglierino, con disegni fantasia in violetto. Al collo campeggiava un pezzo di bigiotteria, comprata forse al mercatino di Porta Portese. Le labbra carnose caricavano troppo rossetto, il  liner nero degli occhi sembravano richiamare un avviso funebre. Per soprammercato, il pacchiano colore del ridicolo cappellino (verde intenso) era un vero pugno nell’occhio anche per i gusti meno raffinati. Nondimeno, la donna si sentiva molto Occidentale e molto Cristiana e proprio non tollerava che qualcuno parlasse forestiero e ad alta voce. E meno che meno in una lingua strana come l’arabo. <Barbari>, pensava tra sé, con il forte desiderio di gridarlo al mondo: <ma senti come s’esprimono ‘ sti trogloditi! E proprio qui vengono a farlo,  in una città santa come Roma>.

 

VIII – I barbari e l’invenzione dello zero.

Ignorava la Giovanna d’Arco dell’occidentalità, che proprio quei barbari avevano raggiunto la civiltà allo stesso tempo dei greci, vari secoli prima della nascita di Cristo ed avevano importato in occidente i numeri arabi (soppiantando quelli romani); avevano introdotto lo zero nel sistema di calcolo e, di conseguenza, il sistema numerico decimale. Il tutto appreso  dagli indiani, attraverso  Alessandro il Macedone, già nel III secolo avanti Cristo.

Una inezia, l’invenzione dello zero, grazie alla quale era stato possibile   lo sviluppo della matematica moderna, del calcolo infinitesimale, dell’algebra  ed oggi dell’informatica.

La  nostra giunonica matrona, comunque, era decisa a soprassedere sullo zero e sulle sue implicazioni nello sviluppo delle funzioni algebriche, della geometria analitica, delle leggi di Keplero, della fisica einsteniana  ed i voli spaziali.  La sua malevola attenzione era attirata dall’uomo di colore seduto di fronte, che aveva osato parlare in pubblico in una lingua sconosciuta, ad alta voce e che le appariva tanto lontano dalla normalità degli altri passeggeri ed in generale degli italiani. Perché  è un assioma ormai comprovato che è  proprio la paura della diversità, assieme all’ignoranza ed all‘insicurezza, il germe che porta al vaso di Pandora del sospetto, dell’emarginazione e del razzismo.

La donna guardò Ahmed di sottecchi, ma si rivolse al giovane seduto accanto a lei, per suggerire: <Certo quando senti  uno parlare in arabo, non è che puoi stare proprio tranquilla: si sa che molti di loro vengono da quegli ambienti integralisti, quelli che buttano le bombe>.

<O peggio>, aggiunse, come se al peggio non ci fosse mai fine.

Il ragazzo era immerso nella musica Reggaeton e praticamente non sentiva nulla. L’altra continuò imperterrita sempre guardando al profilo del suo vicino, ma aggiungendo questa volta una gomitata:

<Si dice che detestino tutti i cristiani, perché sono ancora incazzati per le crociate. Si rende conto di quanto odio debbono avere se dopo mille anni a  noi ci chiamano ancora infedeli e crociati? >.

<Sarà esagerato forse, ma uno che ne sa?>, concluse cupa. L’altro si ritrasse verso il finestrino per lasciare spazio al giunonico esemplare  di cristianità.

Dopo lo sfogo volgare, la corpulenta signora tentò ancora di rimediare, preoccupata che il potenziale terrorista potesse arrabbiarsi davvero. Il tutto senza per altro riuscirci: <certo, grugnì a mezza bocca – rivolgendosi incoerentemente alle sue verdi  scarpe  a tacco lungo – io dico così in generale, senza voler offendere nessuno>.

Tornò ad occhieggiare di traverso l’uomo nero, ma questi era tornato ad immergersi nelle fantasie del libro: strada spesso obbligata per gli esseri umani, specie quando la realtà è troppo dura  e non si riesce a sopportarne a lungo il peso.

Amhed alzò lo sguardo un attimo alla donna di fronte, ma senza rancore. Avrebbe potuto dirgli che il Corano non insegna certo ad odiare: anzi esattamente il contrario. La filosofia di quel libro, bibbia per un miliardo di mussulmani, è invece volta alla fratellanza e l’armonia tra gli uomini. Tra tutti gli uomini. Allo stesso modo dell’insegnamento del Vangelo  e praticamente di tutte le religioni. Ma sarebbe stato inutile, probabilmente. Quel personaggio femminile  gli ricordava tanto un episodio del secondo capitolo di Ubik, quando una supposta cliente, che assomigliava tanto alla robusta passeggera, si era presentata alla Runciter Ltd, dichiarandosi rappresentante di una società amica, la Stanton Mick, per chiedere l’aiuto di un corposo gruppo di antipsi da inviare sulle istallazioni lunari e controbilanciare la cattiva influenza di agenti precogs. Anche lei si comportava in modo abbastanza ridicolo e, apparentemente, incoerente: come la passeggera nel sedile di fronte; anche lei sosteneva il suo diritto alla difesa della normalità. Inoltre si agitava come la sua dirimpettaia e, come lei,  aveva una voce stridula. Ma in realtà non era quello che mostrava essere. Tutt’altro.

Era doloroso provare sulla propria pelle il rifiuto, il razzismo strisciante,  del  prossimo, specie in un momento di difficoltà. Persone che, culturalmente, il giovane non sentiva essere migliori di lui.  Ahmed aveva studiato ingegneria civile all’Università di Tunisi e si era laureato a pieni voti. Aveva lavorato nel settore delle costruzioni in Tunisi ed era una persona stimata, lui come la sua famiglia. Ma in quell’autobus si sentiva trattato come fosse un analfabeta; percepiva l’indifferenza del prossimo, quando non addirittura l’insofferenza. E questo, magari per il colore della pelle, per l’abbigliamento trasandato o la ventura di provenire da un Paese povero, agitato da una rivoluzione democratica.

E tutto in nome della difesa dello status quo, della paura del cambiamento, della conservazione del proprio orticello. Un atteggiamento illogico in un mondo ormai dominato dalla globalizzazione, in cui denaro, merci ma anche le persone si spostavano da una parte all’altra del globo ininterrottamente.  E come spesso accade, la realtà  si rivela essere molto diversa da come può apparire. Ma a che sarebbe servito controbattere l’ignoranza  di quella donna e l‘indifferenza degli altri?

Forse solo a creare un clima di scontro, reazioni ancora più dure, magari l’intervento della polizia. L’ultima cosa che Ahmed andava cercando.

 

XIX . Una eccezione conferma la regola?

D’un tratto una nota diversa cambiò il clima di conversazione in quell’angolo di bus.

<Vergogna>, si interpose un signore in piedi accanto al quartetto: <noi che siamo stati un popolo di emigranti, non dovremmo mai dimenticare la nostra storia>. Era di età senior, certamente oltre i 60, capelli fortemente brizzolati, calzoni di lino blu scuro e una T- Shirt color celeste, a maniche corte. In contrasto con l’abbigliamento, teneva in mano una ventiquattrore elegante e dall’aria pesante. <Non si sentono discorsi così stupidi, sibilò, dai tempi della campagna di Abissinia di Mussolini>.

Si era rivolto alla signora, che rimase a bocca aperta e non ebbe il coraggio di replicare. Poi si rivolse al tunisino, in francese: <Non faccia caso a questi buzzurri, pronunciò secco, squadrando gli altri, ma offrendo poi un sorriso al nord africano. E’ l’ignoranza che li fa parlare e,  anche quando non parlano, la diffidenza trasuda   dalle loro espressioni>.

<Ce n’est pas important, merci>, rispose Ahmed conciliante: <sûrement ils voient trop de gens comme nous>.

<Che ci siano più immigrati ora, non giustifica la maleducazione, riprese l’uomo e – aggregò dopo una nuova occhiata intorno – e tantomeno  il razzismo>.

Lei è del Nord Africa, vero?>, chiese l’uomo a Saadi. Alla risposta di questi, continuò: <Sappiamo dai giornali cosa accade nel vostro Paese. Il minimo che noi italiani dovremmo fare, io credo, è non dico appoggiare apertamente, ma almeno mostrare simpatia per la vostra lotta per la democrazia e per il prezzo che state pagando per ottenerla>

<Merci>, fu la risposta parca, ma riconoscente del tunisino.

<Inoltre, aggiunse dopo un attimo l‘uomo ritornando all‘idioma italiano, per fortuna qui il razzismo è punito dalla legge>.

Il clima nella coda del bus era precipitato in un attimo di almeno dieci gradi; e non solo quella atmosferico. Per qualche istante regnò intorno un silenzio profondo, seguito subito dopo da un brusio indistinto di commenti.

<Ha ragione>, commentò una giovane ragazza seduta in un’altra fila: <va bene che fa caldo, ma ci vorrebbe comunque un po’ di tolleranza per il prossimo>. Fu  subito contraddetta da una donna in piedi accanto a lei: <io non so, ma mi pare che a furia di tolleranza qui ci stiamo riempiendo di stranieri. Ed il lavoro per i nostri figli non c’è>. <E allora?>, chiese accademicamente.

<Ma loro non danno fastidio>, interloquì un terzo: <lo sanno tutti che fanno i lavori più umili e mal pagati, quelli che noi italiani non vogliamo fare più>.

<E comunque, aggiunse il signore della valigetta, non si dovrebbe mai scendere così in basso nei rapporti tra le persone>. Guardò direttamente negli occhi la giunonica signora che, per un attimo, avrebbe voluto sprofondare.

 

  1. Arrivano i nostri

Seduta di fronte al tunisino, lei alla fine si decise a reagire e stava per interloquire ma, in quel momento il  mezzo raggiunse la fermata di Piazza Venezia. La signora fece una pausa per raccogliere le idee, ma intanto pensava al nord africano con collera. Il bus in parte si svuotò e tornò a riempirsi. Il gruppo in coda all’autobus, comunque, rimase intatto. Assieme ai nuovi passeggeri salì una equipe di controllori.

A Roma si muovono sempre in tre. Non in coppia come facevano una volta i carabinieri nei paesini di provincia: ma in tre come le porte di un autobus urbano a Roma.

Due erano maschi, avevano oltrepassato i trent’anni da un pezzo, ed avevano l’aria di voler essere al mare. Erano entrati dalle due porte laterali, sudavano visibilmente sotto la visiera, congestionati in viso per il grande caldo mentre agitavano un grosso libretto delle multe, come fosse un’arma impropria. Cominciarono subito il controllo dei titoli di viaggio, convergendo verso il centro del bus.

Il controllore entrato dalla porta posteriore passò accanto al nostro gruppetto comportandosi come se non esistesse, e proseguì oltre.

Il terzo funzionario era una donna giovanissima dalla pelle abbronzata ed i capelli neri, in parte nascosti dal berretto regolamentare. Lei entrò dall’uscita centrale, ma prima fece uscire chi voleva scendere. Non sudava per niente malgrado la divisa e la calura e mantenne un comportamento fermo e  gentile allo stesso tempo.

Nel bus non mancavano i classici “portoghesi” ed i controllori ne beccarono due senza titolo di viaggio.  Ahmed il biglietto ce l’aveva ma, come già detto, era stato per ora ignorato dalle operazioni di controllo. Era apparentemente ignaro dell’ispezione. Rincuorato dai ricordi della lettura di Ubik nonché dalla gentilezza di alcuni dei passeggeri, iniziò a dire, rivolto al gruppetto di interlocutori: <io sono profugo>. Si sforzò di pensare in italiano e aggiunse: <sono scappato dal mio Paese perché lì c’è solo repressione e per i giovani come me non c’è lavoro, né futuro>.

L’attenzione del circolo di passeggeri fu catturata dalle parole di Ahmed, in un’atmosfera del tutto impermeabile a quanto avveniva nel resto del mezzo.

Il giovane tunisino proseguì: <Sono già alcuni mesi che sono qui in Italia, ma ho solo guadagnato pochi euro di lavoro duro e la diffidenza degli italiani. E’ così che proteggete i profughi in Europa?>, terminò con una punta polemica.

L‘uomo seduto alla sua sinistra, appoggiò il libro e si decise finalmente a parlare, ma lo fece con irritazione: <Non credo che lei sia un profugo>, declamò. All‘occhiata di incomprensione di Ahmed, aggiunse:  <lei è probabilmente un migrante, magari entrato illegalmente in questo Paese>. <Oppure ce l’ha un permesso?>, chiese.  Nel clima di silenzio che si era creato, aggiunse convinto: <il nostro è un Paese civile e  non nega i diritti a chi davvero ne ha i titoli>. Guardò  in volto il suo vicino che si era girato ad ascoltarlo e, al silenzio di questi, aggiunse con una punta di sarcasmo: <magari ora dirà che è un turista>.

Ahmed cercò non senza fatica le parole giuste in italiano: <Il suo paese non è poi così civile come crede, messieur>, fu la sua risposta. <Almeno non nei rapporti tra le persone>, precisò. <Se sapesse quante angherie ho visto commettere dalle sue autorità nei confronti di persone che nemmeno capivano cosa gli veniva detto. Non conoscevano i propri diritti e nessuno si è curato di informarli>. <Certo, aggiunse, non tutte le cose vengono raccontate dalla stampa italiana>.

Alle occhiate titubanti dei suoi interlocutori, Ahmed concluse conciliante: <Comunque, non c’è motivo di essere aggressivi>. Sospirò e riprese: <io ce l’ho il permesso. Ma è solo un pezzo di carta, se non trovo la possibilità concreta di lavorare e vivere con dignità>.

 

<Non volevo essere aggressivo>, rispose il vicino: <è che fa molto caldo>, aggiunse anche lui conciliante, <è che a volte parliamo troppo>.

Ahmed lo guardò un attimo, sorrise, per poi riprendere tristemente: <Capisco, io non sono irritato: è che a volte si può essere offensivi nella forma, oltre che nella sostanza>. <Anche in quella, soprattutto in quella – aggiunse – si può essere cinici>. <Da quando sono arrivato, , aggiunse amaro, ma con voce pacata, la gente mi guarda come ad un insetto e si tiene a distanza. Nel migliore dei casi gli italiani non mi parlano. E la police, nous traités comme des chiens>

<La polizia li ha trattati come cani>, spiegò il signore in piedi, vedendo le espressioni d’incomprensione degli altri.

Fu a questo punto che la signora corpulenta esplose in una delle sue tirate, tanto usuali per chi avesse avuto l’avventura di conoscerla.

<Ma senti un po’ che pretese!>, tuonò. <Adesso stai a vedere che dovevamo riceverlo col tappeto rosso>. Seguitava a  non volersi rivolgere direttamente a lui, parlando agli altri come se Ahmed non fosse presente; una grave forma  di maleducazione e, insieme,  di insicurezza.

<O magari con un lavoro ed una casa pronta>, aggiunse poi rivolgendosi ancora  al ragazzo accanto con le cuffie: <ma se non c‘è lavoro nemmeno per i nostri giovani. Non è vero?>. Continuò ad ignorare Ahmed ed a parlare col teenager immerso nella sua musica. L’altro la guardò trasognato, si spostò ancor di più verso il finestrino per lasciare spazio alla giunonica matrona e riprese il filo delle proprie canzoni.

<E poi, aggiunse, dite quel che vi pare, ma io negri come vicini di casa non ce li vorrei proprio!>. <E non perché sia razzista>, concluse un po’ titubante.

Si guardò intorno cercando consensi, ma la gente distolse lo sguardo, come se avesse paura di veder espresso quello che molti comunque pensavano.

Ahmed riprese tranquillo, senza scomporsi, cercando le parole nel suo limitato vocabolario di’italiano <noi, comunque, abbiamo un diverso concetto dell’ospitalità: l‘ospite per noi è sacro>. Guardò fisso in viso la donna, ma lei distolse seccata lo sguardo. Il tunisino si guardò intorno a cercando comprensione o aspettando reazioni. Non ce ne furono e continuò: <comunque, almeno io cerco di non giudicare il mio prossimo dalle apparenze, né  tantomeno di considerarlo un avversario>.

<A me hanno insegnato che l’ospite dopo tre giorni puzza!>, rintuzzò stizzita la cicciona.

Ci fu un momento di silenzio carico di tensione. Il signore con la valigetta in piedi, furioso, stava per inveire contro la donna, quanto l’anticlimax arrivò insieme alla verifica dei titoli di viaggio.

La ragazza controllore, infine, si era accorta di quella piccola isola di  umanità. Si avvicinò all‘uomo con la valigetta e annunciò con voce formale: <biglietti, per favore. Siete stati controllati?>.

Questi volse lo sguardo verso di lei, mentre estraeva dalla tasca l’abbonamento annuale. Lo offrì alla donna e argomentò in contemporanea: <lei qui ha una funzione di pubblico ufficiale,  non è vero?>.

<A che proposito?>, volle sapere la brunetta in uniforme.

<L’atteggiamento e le parole di quella signora – si girò indicando  il Giunone – sono stati stato non solo offensivi nei confronti del signore straniero di fronte a lei ma, oserei dire, che hanno violato apertamente le norme contenute nel  decreto legislativo 215 che punisce ogni forma di discriminazione>.

La ragazza guardò al gruppetto seduto  e stava per chiamare i suoi colleghi, poi cambiò idea e chiese: <Ma, in concreto che è successo?>.

<Non è successo nulla>, cercò di difendersi la cicciona.

<E’ successo – proseguì deciso l’uomo con la 24 ore – che questo signore straniero è stato oggetto di ogni forma di maleducazione da parte di quest’altra donna. E i termini usati hanno avuto a che vedere con il colore della sua pelle, la lingiua che parla  e con il fatto di non essere italiano>.

Il viso rotondo della matrona seduta era diventato paonazzo, mentre lei cercava di farfugliare qualcosa in sua difesa, ma non riusciva a spiccicare niente di coerente.

<Non credo di essere titolata a trattare questo genere di cose>, si ritrasse la ragazza: <se vuole possiamo chiamare la polizia>. Fece una pausa per riflettere e poi aggiunse>: <comunque, se si tratta solo di maleducazione da parte della signora, dubito che sia il caso>.

 

 

L‘altro replicò senza attendere: <Ma lo sa cosa è stato detto in questo autobus?>, l’uomo  si girò per indicare le persone ed entrare nei dettagli, ma Ahmed – approfittando della fermata di fronte all’anagrafe, era sceso in fretta. Sia pur provvisto di biglietto e di permesso di soggiorno, l’ultima cosa che voleva era  di essere fermato, questionato e magari condotto  in qualche posto di polizia. Di questi luoghi, finora, ne aveva già conosciuti molti in Tunisia ed in Italia e non ne aveva un ricordo esattamente piacevole.

Doveva assolutamente trovare lavoro, altrimenti gli usurai che gli avevano prestato i soldi per il viaggio avrebbero iniziato con le minacce e magari le rappresaglie contro la sua famiglia.

 

  1. Conclusioni: tra dramma della realtà e libertà d’allucinazione

Ahmed si avvicinò all’insegna della fermata per vedere quale altro mezzo passava per la stazione della Piramide. Per sicurezza, chiese informazioni ad un astante alla fermata. Si girò poi a guardare per l’ultima volta il n. 95 mentre si allontanava … e rimase di sasso:  un‘antica filovia su rotaie, a motore elettrico, prese l’avvio in direzione Bocca della Verità. In coda al mezzo erano visibili le connessioni con i fili elettrici che correvano al di sopra, parallelamente alle rotaie. In coda, dietro i finestrini, si intravvedeva un bigliettaio in uniforme accomodato su di un sedile ribaltabile in legno, mentre controllava ogni nuovo entrato dall’ingresso posteriore senza  porta e consegnava il relativo biglietto.

Saadi guardò perplesso il mezzo mentre regrediva nella forma e nel tempo e realizzò che in fondo  Roma ne avrebbe guadagnato in qualità ambientale. Pensò al suo consiglio sulla necessità di non giudicare dalle apparenze. Pensò anche a Joe Chip e sorrise. Poco dopo salì su un doppio filobus n. 30 che passava anch’esso accanto alla stazione Metro Piramide. Da lì partiva il trenino per Ostia dove l’aspettava una nuova odissea. Pagò al funzionario un nuovo biglietto in cambio di poche lire, si sistemò su un  sedile di legno in coda al mezzo e tornò ad aprire il libro.

Nell’ultimo capitolo di Ubik, Joe Chip incontra Ella, moglie di Runciter da anni in animazione sospesa nel moratorium di Zurigo. Da lei vengono tutte le risposte importanti: eccetto Ben Runciter, i partecipanti del gruppo in missione sulla Luna sono davvero tutti morti ed in condizione di semi vita nel moratorium di Zurigo.

Anche in quel mondo crepuscolare, specialmente in esso, le persone dotate di talento mentale sono le uniche a contare. Uno degli ospiti, Jori, particolarmente dotato, è il responsabile sia  della finzione di realtà che Joe Chip ha creduto di percepire, sia della morte dei suoi colleghi la cui energia mentale è stata assorbita dallo stesso Jori per creare quel simulacro di realtà, ma anche per  sopravvivere più a lungo come entità mentale in semivita. Ubik, al contrario, è lo sforzo mentale congiunto prodotto da Ella e da altri semivivi, nella lotta contro il potente talento di Jori.

Il libro si conclude all’insegna del trionfo dell’ambiguità tra sogno e realtà, tra vero e falso, tra normalità e diversità,  con Ben Runciter che termina la connessione mentale con Joe Chip nel moratorium per semivivi di Zurigo e si avvia all’uscita. Ma una finale sorpresa aspetta il lettore: il telefono pubblico appare al titolare della Runciter Ltd nella forma di un antico  modello a cornetta, con avviamento a manovella ed espelle le sue monete in quanto fuori corso; Ben esamina le  banconote del suo portafogli: tutte riportano l’immagine serigrafata di Joe Chip.

Anche per il titolare della ditta la realtà comincia a perdere consistenza e regredire, così come era successo per il suo defunto amico Joe.

Al lettore rimane in bocca un sapore strano ed il dubbio di essere stato ingannato. Ma gli vengono anche alcuni possibili suggerimenti: il bisogno di socialità è un valore universale; meglio tenere la mente aperta e non giudicare dalle apparenze. Ed infine: non è saggio discriminare il prossimo anche perché, prima o poi, potrebbe toccare a te. Infatti, potremmo tutti essere nati a posto di Ahmed, anche se  non di Joe Chip.

FINE