“Il mio nome non vale nulla, due parole vuote!”              Di V. Viganò (emigrazione notizie)

 

Non ho rubato, no ho violentato, non guido ubriaco, non spaccio droga. Sono solo un clandestino. Vengo dal Bangladesh, dove si muore come mosche nelle fogne. Non c’è cibo, l’acqua è sporca. Sono arrivato in un container, nella stiva di una nave. Lavoro tutto il giorno, quattordici ore in una fabbrica di camicie, tenuta da cinesi, quelle che poi sono esposte nelle vetrine del centro. Dormo con altri cinque immigrati in tre letti. Avere metà letto è già meglio che dormire sulla terra melmosa al mio paese. E’ il fornello a gas arrugginito meglio della pietra per cucinare. E la tazza rotta del cesso meglio della latrina all’aperto. E i pochi soldi che guadagno, spaccandomi occhi e schiena, fanno mangiare me qui, e la mia famiglia là, a casa. Sono in quindici, hanno solo riso, quando va bene. Qualche giorno fa,  alla fine del turno, ero così stanco che non ci vedevo più,, l’ago della macchina da cucire in fabbrica mi ha bucato il palmo da parte a parte. Mi è venuta un’infezione e poi, siccome non potevo smettere di lavorare, la cancrena. Avevo bisogno di alcool e bende e antibiotici per guarire. Non avevo soldi. Ma paura. Non voglio andare in ospedale, se il medico mi denuncia è la fine, per me, per la mia famiglia. Devo ancora restituire i dollari che ho pagato per il viaggio nel container. La mano mi fa male, il dolore non mi fa dormire, mi fa tremare. Ma ho paura. Non posso rischiare, non  ho nemmeno un documento né un  parente. Come faccio? Se il medico mi fa domande ho da dargli solo il mio nome. E il mio nome non vale nulla, due parole vuote. Io sono due parole vuote